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Il settore Agroalimentare

Nel 2020 il settore agroalimentare, che include il primario (agricoltura, silvicoltura e pesca) e l’industria agroalimentare, è valso in Italia il 4,3% del PIL (era il 4,1% nel 2019): il settore primario ha contribuito per il 2,2% (come nel 2019) e l’industria alimentare per il 2,1% (l’1,9% nel 2019). Se si include l’intera filiera alimentare nazionale con il relativo indotto, il settore supera il 10% del PIL. All’interno del settore agroalimentare in Italia si possono contare, nel 2018, circa 1,3 milioni di addetti (+33,3% in 5 anni).
Oltre ad essere importante a livello domestico, il comparto agroalimentare risulta uno degli elementi di traino per l’economia all’estero, essendo portatore del Made in Italy in tutto il mondo.
Per quanto riguarda il commercio, si parla di oltre 43 miliardi di export nel 2019 (oltre il +50% dal 2008).

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Sebbene, durante la pandemia da Covid-19, il settore agroalimentare in Italia sia rientrato tra quelli definiti come essenziali e dunque non direttamente soggetto alle restrizioni, le aziende agricole hanno dovuto affrontare difficoltà più o meno rilevanti a seconda dei canali commerciali utilizzati, dei mercati di riferimento, del grado di dipendenza dai fattori produttivi esterni e delle aree di localizzazione.

Nel 2020 il complesso del comparto agroalimentare ha registrato, per la prima volta dal 2016, una diminuzione del valore aggiunto (-1,2% a prezzi correnti e -4% in volume). Un vero peccato se si pensa che in passato il settore era cresciuto più del resto del PIL nazionale e del manifatturiero italiano in generale; nel 2018 aveva registrato +6,9% di export rispetto al 2017, mentre la media del manifatturiero nazionale era cresciuta del +2,7%.

Nel 2020, la produzione di olio di oliva ha subìto il maggiore ridimensionamento (-14,5%), mentre è aumentata la produzione di frutta (+3,7%), cereali (+3%), latte (+2,7%) e ortaggi (+0,2%). Gli effetti dell’emergenza sanitaria hanno colpito fortemente le attività secondarie di supporto (agriturismo, commercializzazione, controterzismo…) con un -20,3%, il settore florovivaistico (-8,4%) e i servizi di supporto all’agricoltura (-4,1%).

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A prescindere dalle performance negative del 2020, il settore agroalimentare è uno dei più importanti in Italia. I segreti del suo successo sono da ricercarsi in vari elementi:

Le affermazioni in merito alle eccellenti qualità dei prodotti alimentari italiani sono suffragate dal sistema delle Indicazioni Geografiche dell’Unione Europea. Quest’ultimo riconosce tre etichettature per gli alimenti di qualità:

DOP, acronimo di Denominazione d’Origine Protetta (Protected Designation of Origin, PDO). In questo caso le qualità e le caratteristiche degli alimenti sono dovute esclusivamente alla circoscritta e ben delimitata zona di produzione. Es.: Aceto Balsamico di Modena, Parmigiano Reggiano;

IGP, acronimo di Indicazione Geografica Protetta (Protected Geographical Indication, PGI). In questo caso l’alimento ha almeno una caratteristica legata ad un territorio delimitato, ma alcune fasi della produzione possono avvenire presso altre zone; si rispettano comunque determinati disciplinari di produzione. Es.: mortadella di Bologna o abbacchio Romano;

STG, acronimo di Specialità Tradizionale Garantita (Traditional Specialities Guaranteed, TSG). In questo caso l’alimento non ha alcuna relazione con una zona di produzione specifica, ma possiede caratteristiche che lo distinguono nettamente dai prodotti analoghi. Es.: amatriciana, mozzarella, pizza napoletana.

Per quanto riguarda i vini e le altre bevande alcoliche, si possono distinguere in Italia, in ordine discendete di qualità, i prodotti DOCG (di Denominazione di Origine Controllata e Garantita), DOC (di Denominazione di Origine Controllata) e IGT (di Indicazione Geografica Tipica). I DOCG e i DOC rientrano nell’etichettatura europea PDO, gli IGT rientrano nell’etichettatura europea PGI.

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Problematiche e potenzialità del settore agroalimentare in Italia

A minare il successo riscosso da tale settore vi sono alcune criticità. Sono moltissime le aziende straniere che, con denominazioni o immagini che evocano il Bel Paese, vendono alimenti sui mercati internazionali spacciandoli per italiani. Tale fenomeno, definito Italian Sounding, sottrarrebbe all’export italiano ben 60 miliardi di euro annui. Per fronteggiare tale problema, è importante proseguire l’attività di contrasto istituzionale, potenziare il sistema dei controlli e continuare ad investire sul marchio Made in Italy in ambito globale.

Quella del presidio dei mercati internazionali non è però l’unica battaglia da combattere. 

In generale si riscontra un’ottima predisposizione all’esportazione (oltre il 30% delle realtà analizzate realizza il 50% dei propri ricavi all’estero). Eppure, solo il 30% delle aziende prese in esame aveva investito sul canale e-commerce. Il fenomeno della trasformazione digitale sta investendo qualsiasi mercato: anche le aziende agroalimentari dovrebbero rivolgersi ai canali di vendita online. La pandemia da Covid-19 ha dato un forte impulso in questo senso: nel 2020 si registra ad esempio un +74,9% di e-commerce attivi nel mondo delle bevande alcoliche.

Dal punto di vista della redditività e della solidità finanziaria, vi sono filiere robuste (caffè, food equipment, distillati, farine); altre che evidenziano alcune criticità (vino, pasta, surgelati, packaging e acqua); altre piuttosto deboli (salumi, olio e latte). Per rendere il settore ancora più competitivo all’estero, le buone pratiche manageriali che hanno raggiunto buoni risultati in certe filiere dovrebbero essere estese ovunque.

Si registra in media una bassa produttività; come nel settore manifatturiero italiano, questo elemento potrebbe rivelarsi nel lungo periodo un grande pericolo in termini di competitività.

L’Italia è ancora in ritardo rispetto ad altri paesi europei nel panorama dell’innovazione Agri-Food-Tech. A rilento soprattutto il business “Agtech and Next-Gen Food & Drinks”, che risente molto probabilmente dello scetticismo delle generazioni più anziane nei confronti dei “novel foods” come proteine vegetali e proteine alternative. Il settore “Farm management & Precision farming”, invece, pur essendo ben rappresentato in termini di numero di aziende, richiede più capitale per diventare competitivo a livello internazionale. Capitali che l’Italia stenta ad ottenere: con 6,3 milioni di euro investiti, le startup italiane rappresentano solo l’1,7% di tutti gli investimenti europei in uno dei domini più finanziati del continente (ad oggi 379 milioni di euro). Inoltre, allo scarso sostegno finanziario da parte del governo italiano, si aggiunge la peculiarità di un tessuto imprenditoriale agricolo composto per lo più da piccole aziende con una proprietà frammentata, con solo l’8% che si qualifica come azienda “industrializzata”, rispetto al 27% in Europa. 

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